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Da un crowdfunding di 2,75 milioni di sterline a una exit che ne vale 85 (sempre milioni). E tutto nell’arco di soli 8 mesi. Per festeggiare un successo del genere ci vorrebbe molto di più di una birra ma, in questo caso, ci si può accontentare anche di un bel boccale, visto che il protagonista di quest’operazione è Camden Town Brewery, una delle più note catene di pub-birrerie artigianali londinesi nata nel 2010 (con solo tre dipendenti) per opera di un allora 34enne australiano, Jasper Cuppaidge e ora acquisita dal gigante delle birre AB InBev. Non è una startup, anche se hanno utilizzato tutte le metodologie delle startup in maniera eccellente, dalla raccolta all’exit. Siamo molto distanti dalle ultime esperienze italiane, ma secondo alcuni esperti una regolamentazione sull’equity crowdfunding diversa da quell’attuale (il regolamento Consob che verrà rivisto a breve) e più simile a quella britannica potrebbe aiutare a far accadere storie del genere anche in Italia.

 

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Dall’eredità del nonno birraio al quartier generale londinese

La storia di Camden Town Brewery è un po’ più lunga di quanto si pensi. Tutto si deve infatti al nonno del fondatore della catena di birrerie londinese, che in Australia possedeva una pub-birrificio con più di 60 sedi e che ha trasferito al nipote la passione per il business del luppolo. Il vero inizio non risale quindi a soli 6 anni fa, ma almeno al 1960, quando Patricia McLaughlin, madre di Jasper Cuppaidge, ereditò la catena di birrifici. In seguito, a causa delle difficoltà di gestione la donna decise di vendere l’attività e con il ricavato uno dei suoi figli, Jasper appunto, decise di trasferirsi a Londra dove prese in gestione un vecchio pub, rinominandolo Horsehoes. «All’inizio non fu facile», ha raccontato Jasper al Financial Times che ne ha ricostruito la storia, ma poi per il cinquantesimo compleanno di sua mamma, il giovano australiano decise di creare nella cantina del pub la sua “Mac’s Beer” che continuò a produrre fino al 2010. Proprio in quello stesso anno si spostò sotto gli archi della ferrovia di Kentish Town Ovest dove ancora oggi sorge il quartier generale di Camden Town Brewery, che ha preso il suo nome dal fatto che il fondatore vivesse allora in un appartamento in affitto proprio a Camden Street.

Per chi ha puntato sul crowdfunding un ritorno del 70%
Certo è che il “regalo” ricevuto da chi solo otto mesi fa aveva investito nel crowdfunding lanciato dalla catena di birrerie avrà lasciato sicuramente senza fiato i fortunati investitori. Secondo il Guardian infatti, come ha rivelato una lettera inviata agli azionisti a seguito della notizia dell’acquisizione, il ritorno dell’investimento da loro effettuato dovrebbe aggirarsi intorno al 70%. C’è da dire che già a luglio, quando si è conclusa la plurimilionaria raccolta di fondi online (oltre 2.750.000 di sterline a fronte di un obiettivo di 1.500.000, una percentuale di successo che va quindi oltre il 180%), alla società era stato dato un valore superiore ai 50 milioni. A detenere oltre il 95% della società, attualmente sono ancora Jasper, la sua famiglia e tre suoi migliori amici, che ad occhio e croce avranno quindi guadagnato da questa operazione 80 milioni di sterline. Mentre, esaminando l’ultimo bilancio di quella che è ancora una società a tutti gli effetti molto giovane si scopre che su un fatturato di oltre 9,5 milioni, l’utile ante imposte si ferma a 319.000 sterline.

Le differenze con l’Italia e il dibattito sulle norme
Se ci si concentra sul crowdfunding e sul ruolo che ha avuto nella definizione di questa acquisizione è difficile non incorrere in un confronto decisamente in perdita per l’Italia, dove non si sono ancora verificati finanziamenti di questa portata e soprattutto con questi risultati. L’equity crowdfunding all’italiana è molto diverso da quello del Regno Unito, per la cultura, per il tipo di imprese che vi ricorrono, ma anche per la normativa. In un post su Facebook che riprendeva proprio la storia di Camden, Stefano Tresca managing partner di iSeed ed ex avvocato, ha aperto un bel dibattito, facendo notare che: «una legge simile a quella Inglese potrebbe accelerare la crescita di tante startup. Ma aumenterebbe anche il rischio di truffe, visto il sistema Italia. Un bel grattacapo». Intervistato sul tema da Smartmoney, Tresca ha spiegato che in Italia «purtroppo non esistono gli strumenti giuridici per far crescere l’equity crowdfunding (che significa raccogliere denaro in cambio di una parte della società). Il problema è piuttosto facile da risolvere tecnicamente, ma i legislatori Italiani hanno sempre qualche difficoltà ad applicare soluzioni semplici. La sensazione dall’estero è che — in Italia — se una soluzione non è complicata non piace».

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«Il grosso ostacolo è la struttura delle SRL»
Secondo Tresca, un grosso ostacolo allo sviluppo dell’equity crowdfunding in Italia è la struttura delle SRL. In Inghilterra, in Inghilterra infatti le SRL (LTD) hanno le azioni come le SPA Italiane. In Italia invece, hanno le “quote”. «Sembra un gioco di parole per avvocati ma la differenza è sostanziale –spiega Tresca – In Inghilterra gli imprenditori con 15 sterline (circa 20 euro) e 15 minuti online possono emettere nuove azioni e venderle al miglior offerente. In questo modo, un impiegato può decidere di investire £ 100 in un bel progetto. In Italia le SRL hanno le quote e questo significa passare per il notaio».

Come spiega Tresca, tutto ciò non si esaurisce solo in un problema di costi, ma significa anche trovare un giorno in cui sia il notaio, sia tutti gli investitori siano liberi. «Poi bisogna sperare che quel giorno gli investitori non abbiano cambiato idea. Insomma c’è bisogno per forza di due intermediari. Non solo il notaio, ma la piattaforma di crowdfunding che firma dal notaio come rappresentante degli investitori. Mentre in Inghilterra l’investitore riceve le azioni direttamente e senza costi. Non entro nella differenza tecnica sulla natura tra “quote” e “azioni”. Ma il problema maggiore dal punto di vista legale è questo. Cambiare “quote” in “azioni” è una cosa piuttosto semplice. Forse è per questo che non piace», conclude Tresca.

 

(Fonte: StartupItalia)

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