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shenzhenShenzhen si candida a diventare la nuova Silicon Valley, grazie ad un particolare contesto che sta consentendo di raggiungere risultati economici in grado di impensierire i giganti hi-tech statunitensi.

Shenzhen la nuova Silicon Valley. Un accostamento quasi blasfemo fino a qualche tempo fa, ma che oggi racconta come la Repubblica Popolare Cinese stia riuscendo ad accorciare le distanze dagli Stati Uniti nel settore hi-tech. Colossi come Apple, Google e Microsoft potrebbero, in ottica futura, perdere il primato in termini di innovazione.

 

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Nei 36 anni compresi tra il 1980 e il 2016, il PIL di Shenzhen in termini reali è cresciuto ad un tasso medio annuo del 22%. Un’enormità se si pensa come questa città fosse un piccolo villaggio di pescatori sul finire degli anni ’70. Un exploit che è stato possibile anche grazie alle aziende statunitensi, che qui hanno trovato terreno fertile per delocalizzare la produzione hardware.

In tal senso, un esempio lampante è costituito dalla Foxconn. L’azienda taiwanese impiega a Shenzhen oltre 1 milione di lavoratori, impegnati nella produzione di migliaia di modelli di smartphone e tablet, tra cui gli iPhone di Apple. Il primo passo è stato dunque quello di svincolare il concetto di “made in China” da quello di “scarsa qualità”.

Non è un caso che Huawei, divenuta il terzo produttore mondiale di telefonia alle spalle di Samsung e di Apple, abbia scelto proprio Shenzhen come sede del proprio quartier generale. L’azienda fondata nel 1987 da Ren Zhengfei, un ingegnere dell’esercito della Repubblica Popolare Cinese, rappresenta l’emblema del secondo passo decisivo compiuto dalla città negli ultimi anni.

Huawei investe il 10% del proprio fatturato annuale nella divisione Ricerca e Sviluppo (dietro Google che raggiunge il 15% e davanti ad Apple che è al 3,5%), dimostrando come le realtà cinesi siano riuscite a compiere lo step successivo, passando da semplici produttori ad aziende in grado di innovare tanto quanto i giganti statunitensi.

Basti pensare all’aumento del numero di brevetti in ambito tecnologico registrati in Cina che, all’inizio degli anni 2000, era distante anni luce dagli Stati Uniti, alle spalle anche di Francia e Gran Bretagna, mentre adesso ha praticamente raggiunto il Giappone e si appresta ad insidiare il Paese a stelle e strisce.

Entrando nel dettaglio, Shenzen è la città cinese dove, in percentuale, viene depositato il più alto numero di brevetti, mettendosi alle spalle anche la capitale Pechino. Del resto, qui si spende oltre il 4% del PIL in ricerca e sviluppo, il doppio della media continentale. Nel Nanshan, il distretto che ospita 125 imprese quotate con un valore di mercato complessivo di 400 miliardi di dollari, si tocca anche il 6%.

Non è tutto rose e fiori, ovviamente. Per poter raggiungere questi risultati, si è dovuto creare a Shenzhen un particolare contesto che, in qualche modo, favorisse gli investimenti da parte delle aziende straniere, che di fatto hanno avuto un ruolo fondamentale per la crescita esponenziale degli ultimi anni.

Tutto questo è descritto in maniera efficace nel libro “Learning from Shenzhen”, scritto da Mary Ann O’Donnell, Winnie Wong e Jonathan Bach. Un testo che spiega come la crescita economica della città sia stata possibile soprattutto per una gestione retroattiva delle leggi, la vera chiave di volta di tutta la questione.

Viene spiegato infatti come, all’inizio degli anni ’80, siano arrivati i primi investimenti stranieri, spinti dalle condizioni fiscali favorevoli offerte dal governo. Solo successivamente è stato creato il quadro giuridico per giustificare, in termini legali, l’ingresso di questi fondi. Una pratica che ha consentito nel tempo a Shenzhen di potersi configurare come terreno fertile per l’entrata di ingenti capitali.

Una pratica, questa dell’ingresso dall’esterno, che viene applicata anche in ambito universitario. Shenzhen infatti, a differenza di Pechino, conta pochissime Università. Nonostante questo, la quota di laureati presenti in città è superiore a quella della capitale cinese, evidentemente collocati nel settore hi-tech.

Basti pensare ad Honor, azienda del gruppo Huawei, dove il 60% dei lavoratori sono appena laureati e hanno una media di 23 anni. Occorre anche ricordare il programma Seed for the Future, con il quale Huawei si è impegnata ad offrire corsi di alta formazione a circa duemila studenti europei nei prossimi cinque anni. Uno sguardo particolare dunque verso la specializzazione.

A tutto questo vanno aggiunte le condizioni lavorative degli operai, che inevitabilmente abbassano i costi di produzione. In tal senso, la cronaca spesso ci ha raccontato di episodi al limite. Anche in questo caso, una dimostrazione concreta è rappresentata dalla Foxconn, spesso oggetto di polemiche in relazione ai ritmi di lavoro per l’assemblaggio degli iPhone. Ma gli esempi potrebbero essere molteplici.

Shenzhen rappresenta dunque un po’ tutte le sfaccettature della Repubblica Popolare Cinese, dove spesso la modernità e l’innovazione si scontrano con contraddizioni in essere. Se la crescita dovesse però continuare su questi ritmi, non sarà più blasfemo parlare della nuova Silicon Valley in Cina.

 

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